Giulia era la bambina con i capelli ricci che abitava al quinto piano del palazzone ad elle dove ho trascorso la mia infanzia.
Minutina, sempre sorridente, con le ginocchia rosse rosse dal freddo e dalle sbucciature delle cadute che si procurava correndo sui sassi della strada ancora senza asfalto che attraversava il quartiere.
Giocava a nascondino, a guardie e ladri, saltava la corda con un’intensità partecipativa rilucente nei suoi occhi grandi e intelligenti.
Vedere in cortile la massa ondeggiante dei suoi capelli garantiva ore di fantasia pura.
Metteva in scena i nostri giochi e i pomeriggi volavano via disperdendosi nelle voci delle madri che ci richiamavano a casa per la cena.
” Ma domani ci sei, vero Giulia? ” le chiedevamo prima di salutarci.
Lei annuiva senza più parlare con la faccina improvvisamente compresa in una disperazione attenta.
Noi ce ne accorgevamo. Ma eravamo solo bambini come lei.
Altro non potevamo fare che sperare, sperare tanto di giocare di nuovo con lei l’indomani.
Sì, perchè ogni tanto Giulia spariva per giorni.
Andavamo in gruppo a suonare al suo citofono.
” Non puo’ scendere oggi. ” la voce definitiva di sua mamma.
Nel silenzio dettato dal suo tono, ci sedevamo sulle panchine di pietra, muti, incapaci di dare voce ai pensieri.
Avevamo sentito tutti la voce di suo padre salire di tono, un giorno a pranzo. Le cucine nel palazzone ad elle si affacciavano le une sulle altre, mischiando sapori delle cene e umori dei suoi abitanti.
Il pianto di Giulia arrivava sommesso a noi che tendevamo l’orecchio trattenendo il fiato dopo averne udito le urla.
Non avrebbe fatto ginnastica quella settimana, non voleva spogliarsi.
La professoressa la prendeva in giro mortificandola per la sua timidezza anacronistica per lei, femminista convinta.
Giulia taceva, l’espressione di ostinata attesa.
Come chi è convinto che dopo un temporale tornerà inevitabilmente il sole.
Dopo qualche giorno tornava sorridente, vivace, saltellante a giocare con noi.
Mio padre diceva che era una bambina difficile… a me non sembrava per niente difficile, giocare con lei era così bello!
Parlavano, i miei genitori e quelli degli altri bambini, di quanto Giulia fosse un problema per i suoi genitori, quanti pensieri dava loro…ma più la guardavo, parlavo, giocavo con lei, più non capivo quali potessero essere questi problemi così gravi.
” Ha una fantasia troppo fervida e si inventa le cose. Per fare litigare i suoi genitori. E’ una bambina cattiva! “
Ma non esisteva nulla di cattivo in Giulia, solo nel tono in cui venivano pronunciate queste parole.
Una volta, dopo che era sparita per giorni, a scuola si era spogliata per fare ginnastica.
Avremmo giocato a pallavolo e lei era bravissima.
Le piaceva giocare sotto rete.
Si era messa in fondo alla panca, lontana dalle altre. Con me aveva più confidenza, avevo pensato.
Nel togliermi la maglia mi ero voltata senza volerlo verso di lei e…che livido nero sulle spalle, proprio fra le scapole! E un altro, più giù…
“SHHH!!!” aveva implorato lei, mettendo un dito sulle labbra, dopo aver seguito il mio sguardo.
” Non dire niente a NESSUNO!!!!”
Una nebulosa nera aveva avvolto la mia mente, dove vorticavano la voce di suo padre, le urla, i pianti di lei.
Gli altri genitori che ascoltavano sua mamma sulle scale di marmo del palazzone dire che Giulia era una bambina cattiva.
Ero anche io solo una bambina, e con l’istinto dei bambini avrei voluto stringere forte Giulia, abbracciarla, senza sapere veramente il perchè, che aleggiava dentro di me senza farsi dare un nome.
Giulia.
Potevo essere io Giulia.
Le volte in cui avevo combinato qualcosa, come tutti i bambini di questo mondo.
Solo che mia mamma non diceva di me che ero cattiva.
E così ero corsa nelle sue braccia appena rientrata a casa, le avevo raccontato tutto della palestra, e lei mi guardava ora silenziosa.
” Non sono affari che ci riguardano bambina. Ognuno in casa sua fa quello che vuole.”
Sentivo, con l’istinto dei bambini, che la mamma voleva proteggerci.
Ma chi proteggeva Giulia?
Il palazzone ad elle non esiste più, al suo posto c’è un Centro Commerciale.
Abito in collina, e al mattino è bello sorseggiare il primo caffè sulla veranda guardando il sole sorgere dal mare.
Dalle finestre più in basso del palazzo di fronte, sento una voce bambina urlare.
E’ già la seconda volta, ed è troppo per me.
Mi vesto con le prime cose decenti trovate e vado a vedere.
Potrebbe essere Giulia che ha bisogno di me.
GRAZIE A Luciana Berello per il suo racconto, inserito nel libro “Niente è uguale”.
La tua fantasia la trasforma nel Mostro delle Favole.
Il Mostro a cui sfuggire, da cui nascondersi.
Fino a che, stanca, lo guardi finalmente negli occhi.
Non è poi tanto grande.
E’ piccolo, triste e solo.
E la paura si trasforma in coraggio.
Il tuo coraggio, fa paura al Mostro.
Adesso, tocca a lui nascondersi”